Il continuum deficit/conflitto: un modello integrato per la psicoterapia

Nel mio lavoro clinico quotidiano in una comunità terapeutica, ho avuto modo di confrontarmi con forme di sofferenza psichica intense, spesso gravi e persistenti, che si esprimono con modalità disfunzionali, tanto per il paziente quanto per il suo contesto familiare e sociale. In questi casi, la compromissione dell’Io è così marcata da far pensare a una condizione di “cronicità” o di “area deficitaria” della personalità, dove i bisogni fondamentali – sicurezza, contenimento, dipendenza – non solo sono fortemente presenti, ma spesso anche negati dal paziente stesso.

In tale scenario, l’intervento psicoterapeutico rischia di essere percepito come marginale, inefficace, “protesico” più che terapeutico, con il pericolo di alimentare frustrazione e svalutazione sia da parte dell’équipe, sia del sistema curante più ampio. Tuttavia, proprio questi contesti pongono con urgenza la necessità di un ripensamento: è possibile riconoscere il valore trasformativo di un lavoro che si muove lungo un continuum tra supporto e espressione, tra deficit e conflitto?

La mia esperienza suggerisce di sì. Esistono modalità di intervento che, pur nascendo nell’ambito dell’area deficitaria, possono essere efficacemente utilizzate anche con pazienti che presentano conflitti intrapsichici più strutturati. In particolare, un approccio misto, supportivo-espressivo, si dimostra funzionale non solo nel contenere e sostenere, ma anche nel favorire la rielaborazione e il cambiamento. Questo richiede, però, la capacità di riconoscere le specificità della sofferenza del paziente, di individuare un focus terapeutico chiaro e condiviso, e di modulare le tecniche in base al livello evolutivo e al momento del trattamento.

Tradizionalmente, la psicoterapia dinamica ha distinto nettamente le tecniche di supporto da quelle espressive. Le prime sarebbero più indicate per i pazienti gravi, meno evoluti, in cui prevalgono difese arcaiche e un Io fragile; le seconde, più adatte a soggetti nevrotici, capaci di tollerare l’insight, il transfert e il lavoro interpretativo. Questa distinzione ha creato una sorta di dicotomia tra approcci, talvolta vissuti come incompatibili o addirittura in conflitto. Ma tale separazione non rispecchia la complessità del funzionamento psichico, né la varietà delle situazioni cliniche che incontriamo nella pratica.

È in questa cornice che il modello del continuum deficit/conflitto si rivela prezioso: non come semplificazione, ma come strumento concettuale per orientare l’intervento psicoterapeutico in modo flessibile, rispettoso della singolarità del paziente e dei suoi bisogni in evoluzione. La proposta è quella di pensare la psicoterapia come un processo che può muoversi tra i poli di questo continuum, integrando tecniche di sostegno e interpretazione a seconda del momento, della struttura e del focus individuato.

Il polo del conflitto e l’eredità freudiana

Se il polo del deficit richiama la necessità di sostegno, contenimento e riparazione, quello del conflitto ci riporta al cuore della teoria psicoanalitica classica, fondata sull’idea che i sintomi siano l’espressione di un compromesso tra pulsioni, difese e istanze dell’Io. In quest’ottica, la psicoterapia si propone come uno spazio in cui portare alla coscienza tali conflitti inconsci, elaborarli e renderli pensabili, all’interno della relazione terapeutica.

Freud ci ha consegnato un modello intrapsichico basato sul conflitto tra desiderio e divieto, tra Es, Io e Super-Io, che trova il suo nucleo nella situazione edipica. La triangolazione edipica, con la sua dinamica di amore, gelosia e interdizione, costituisce uno snodo fondamentale nello sviluppo del pensiero simbolico e della capacità di mentalizzazione. Attraverso la frustrazione, l’ambivalenza e la perdita, il bambino impara a rappresentare l’altro come separato da sé, a tollerare l’assenza e a costruire uno spazio interno in cui le emozioni possono essere pensate piuttosto che agite.

In quest’ottica, il transfert assume un ruolo centrale: è il luogo dove si ripetono, nella relazione con il terapeuta, le dinamiche affettive irrisolte, rendendole disponibili all’osservazione e all’elaborazione. Ma il transfert non è solo ripetizione: è anche possibilità di trasformazione. Attraverso l’esperienza della relazione terapeutica – una relazione nuova, differente, sufficientemente buona – il paziente può fare esperienza di una Esperienza Emotiva Correttiva (Alexander e French), capace di modificare le tracce mnestiche e relazionali del passato.

Questa prospettiva implica una responsabilità importante per il terapeuta: non basta interpretare, bisogna anche essere presenti nella relazione in modo autentico, tollerante, coerente. È solo in un setting sufficientemente sicuro che il paziente può permettersi di “regredire” per poi riappropriarsi, gradualmente, di parti di sé frammentate, scisse o non mentalizzate. Il terapeuta, in tal senso, funge da contenitore, da specchio, ma anche da catalizzatore del cambiamento.

Verso un modello integrato: focus, contenimento e trasformazione nella comunità terapeutica

Nella pratica clinica, e ancor più nel setting della comunità terapeutica, la distinzione tra deficit e conflitto si rivela spesso artificiosa. Le storie dei pazienti mostrano ferite relazionali precoci, fallimenti di sintonizzazione e traumi cumulativi, che si intrecciano a difese rigide, fantasie inconsce e conflitti profondamente radicati. È per questo che si rende necessario un modello integrato, capace di coniugare i due poli teorici in una prospettiva complessa e dinamica.

Il punto di partenza è il focus terapeutico, inteso non come vincolo rigido, ma come cerniera tra le dimensioni del deficit e del conflitto. Scegliere un focus significa individuare una traiettoria di senso, una direzione di lavoro condivisa, che tenga conto sia dei bisogni evolutivi irrisolti sia delle modalità difensive messe in atto per farvi fronte. In questo senso, il focus rappresenta un punto di convergenza tra ciò che manca e ciò che si difende dal dolore della mancanza.

Nel contesto comunitario, il lavoro sul focus non riguarda solo la diade terapeuta-paziente, ma coinvolge l’intera équipe terapeutica, che si fa contenitore collettivo delle angosce, delle scissioni e delle identificazioni proiettive dei pazienti. Il gruppo dei curanti, nella misura in cui è in grado di tollerare la frammentazione, la dipendenza e l’aggressività senza reagire in modo difensivo o espulsivo, diventa oggetto trasformativo, esperienza nuova e potenzialmente riparativa.

La comunità, quindi, si configura come un ambiente terapeutico totale, dove il setting non è solo lo spazio della seduta, ma l’intera quotidianità. Ogni interazione – dal pranzo alla riunione clinica, dal colloquio individuale al confronto in assemblea – può diventare occasione di significazione, di insight, di riappropriazione affettiva. In questo senso, la comunità rende possibile una esperienza emotiva correttiva continua, sostenuta da una rete relazionale che contiene, rispecchia, nomina e simbolizza.

Ma perché tutto questo sia efficace, è necessario che l’équipe sia in grado di mentalizzare l’esperienza, cioè di dare significato a ciò che accade nel transfert e nel controtransfert, senza cadere nella collusione né nella distanza difensiva. Il focus condiviso, allora, diventa anche uno strumento di coerenza dell’intervento e di tenuta del legame terapeutico, soprattutto nei momenti di crisi o di agito.

In conclusione, lavorare in una prospettiva integrata significa saper oscillare tra le polarità della cura – sostegno ed elaborazione, contenimento e interpretazione – restando ancorati al mondo interno del paziente, ma anche a quello dell’équipe, in un processo continuo di riflessione, risonanza e trasformazione.

Vignetta clinica: Marco, il caos silenzioso

Marco ha 23 anni, un passato di tossicodipendenza, famigliarità psichiatrica e diverse esperienze fallimentari in comunità precedenti. Entra nella struttura con un atteggiamento remissivo, apparentemente collaborativo, ma in breve tempo emergono aspetti caotici: non rispetta le regole, dimentica gli impegni, ha frequenti amnesie e comportamenti autolesivi mascherati da distrazione. Durante un colloquio individuale, il terapeuta percepisce un senso di vuoto e frammentazione che non trova parole.

L’équipe si confronta: alcuni leggono i comportamenti di Marco come segnali di disorganizzazione psichica, altri vi vedono un conflitto inconscio tra bisogno di appartenenza e paura dell’intimità. Si decide di lavorare su un focus condiviso, che ruota intorno al bisogno di essere visto e contenuto senza dover agire. Il lavoro non si limita al colloquio: in mensa, in assemblea, nella gestione dei limiti quotidiani, l’équipe mantiene un atteggiamento coerente, che alterna contenimento fermo e ascolto empatico.

In un momento critico, dopo un’aggressione verbale a un operatore, Marco si aspetta l’espulsione. Invece, viene accolto in riunione clinica, gli si restituisce il significato possibile del suo agito (“forse era difficile dire che avevi bisogno, ma non sapevi come fare”), e si rinnova il patto terapeutico. Per la prima volta, Marco piange.

Questo passaggio, piccolo ma significativo, segna l’inizio di una trasformazione: Marco inizia a parlare di sé con più continuità, accetta di rileggere le sue crisi non solo come esplosioni impulsive, ma come comunicazioni di un dolore primitivo, che l’équipe ha saputo contenere, mentalizzare e simbolizzare.

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